venerdì 9 maggio 2014

Quel genio bastardo di Bukowski (Giuseppe Alessandri su Area di aprile)

  Articolo di Giuseppe Alessandri
da Area di aprile 2014
Il più grande scrittore degli ultimi duemila anni? Louis Ferdinand Céline. Quello più autentico? Knut Hamsun, «che ha dovuto vivere le cose che ha scritto». Il nostro Dio? John Fante. Così parlò Bukowski. Charles per i critici, Henry per l’anagrafe americana (in realtà nacque come Heinrich ad Andernach, in Germania ) e Hank per gli amici e per chi, come il giornalista e saggista Roberto Alfatti Appetiti, lo conosce da molto tempo – ne scrisse proprio su Area già negli anni Novanta – e bene. Tanto bene da scrivere una biografia, Tutti dicono che sono un bastardo. Vita di Charles Bukowski (Bietti edizioni, pp. 336, € 19) che sta facendo saltare sulla sedia tutti coloro che, a distanza di venti anni dalla morte del grande scrittore americano, avvenuta il 9 marzo del 1994, continuano a rappresentarlo come l’icona pacifista e un po’ naif buona per tutte le stagioni. L’autore pubblicato in quanto personaggio. Il furbastro che riempiva di sesso i suoi racconti per vendere.
Un castello di luoghi comuni che Alfatti Appetiti spazza via con uno studio inedito e politicamente scorretto che mette in luce la complessa personalità dello scrittore e i suoi sorprendenti riferimenti culturali, solidi quanto insospettabili. Nel pantheon personale del vecchio Hank, infatti, non ci sono Jack Kerouac ed Henry Miller, ai quali è stato spesso accostato, ma quelle che lui definisce «le vecchie pellacce che si sono battute così bene». Hemingway, che però gli venne presto a noia – «I vincenti non mi piacciono perché ingrassano e cominciano a sbattersene di tutti e scrivono cose come Il vecchio e il mare» – e soprattutto i suoi numi tutelari: Céline e Hamsun. Non si stanca mai di leggere il primo e il secondo è il suo inarrivabile punto di riferimento, la sua stella cometa. Cos’hanno in comune il “vecchio sporcaccione” e l’autore del Voyage? «Céline era un uomo molto coraggioso. Mi piace il coraggio. Mi fa stare bene. È una questione di stile, che è l’unica cosa che ci resta», sottolinea Bukowski. E quali affinità possono avere mai l’ubriacone che si trascina di locale in locale, immortalato da Mickey Rourke in Barfly, con i viandanti di Hamsun e con il tenente Thomas Glahn, il protagonista di Pan, che a metà Ottocento vive di caccia nella natura selvaggia del Nordland? Bukowski, che volle, fortissimamente volle, fare di una metropoli alienante come Los Angeles la sua casa, cosa può ritrovare di “familiare” in un cantore della tradizione contadina qual è lo scrittore norvegese? La risposta è più semplice di quanto si pensi e la offre Alfatti Appetiti nel suo approfondito saggio. La diffidenza nei confronti delle lusinghe della civiltà moderna. La difesa della propria integrità di uomini, sempre, anche nelle situazioni più degradate e degradanti. «Se fossi stato come Rourke nel film – spiegò lo stesso Bukowski – non mi avrebbero mai affittato una stanza». E l’attenzione ai “matti”, a chi vive sull’orlo del baratro, a chi non si adegua al pensiero unico e non accetta regole e principi di un mondo mercantile e industrializzato rispetto al quale si sente estraneo.
Sensibilità, quest’ultima, che lo avvicina a un altro grande irregolare del Novecento, il rumeno Emil Cioran. Non si sono mai incontrati, i due. Cioran aveva fissato la sua dimora a Parigi mentre a Bukowski era stato sufficiente visitare un’unica volta la capitale francese per rimanerne deluso: Cèline era morto e la gente, nei bar, lo guardava con sospettosa alterigia. Ma, azzarda Alfatti Appetiti, si sarebbero piaciuti, Charles ed Emil, animati com’erano vocazione ad andare controcorrente, dalla stessa passione per le battaglie perse. Ai tempi del college, indignato dallo spirito antitedesco dei suoi professori, Bukowski si era divertito ad assumere provocatorie pose naziste e Cioran, nello stesso periodo, si era lasciato affascinare da Corneliu Zelea Codreanu e dalla sua Legione dell'Arcangelo Michele. Non era un’adesione politica vera e propria, la loro. A muoverli era l’esigenza insopprimibile di reagire al conformismo imperante. Nessuno dei due, a ben vedere, crede nella politica – e più in generale nella democrazia – ed entrambi auspicano un mondo liberato dal lavoro.
Attenzione, però, a fare di Bukowski uno scrittore sociale. Non ne ha il tono lamentoso. Non ha l’ambizione di cambiare il mondo.  Non è il portavoce di nessuno e l’unica causa per cui combatte è la propria. Bukowski è uno scrittore di sentimenti, non di idee. Si lascia trascinare malvolentieri nel cosiddetto dibattito culturale e quando proprio non può farne a meno – tra gli oneri della fama c’è quello di prendere posizione sull’attualità – diventa una furia. Si scaglia contro tutto e tutti. Contro i beat, anche se molti tra loro lo apprezzano e Ferlinghetti giocherà un ruolo non indifferente nell’affermazione di Bukowski. Contro l’establishment letterario. Contro i poeti omosessuali, rei di aver condannato la poesia all’autoreferenzialità. Contro le donne. Da qui la leggenda del Bukowski misogino, una delle tante da lui stesso alimentate con una pervicacia degna di migliore causa. Se tutti dicevano che era un bastardo, a ben vedere, lui non faceva molto per smentirli. In realtà, quand’era ragazzo, l’acne, oltre a scavargli il viso, aveva aperto un solco tra lui e l’universo femminile. Le donne si accorsero di lui dopo i primi “successi” letterari e da allora, per recuperare il tempo perso, divenne un avventuriero seriale. Le raccoglieva come «prugne mature» direttamente sugli sgabelli dei bar. Le femministe l’avevano messo all’indice perché i riferimenti al sesso debole, nelle sue opere, erano tutt’altro che lusinghieri. «Provate voi a vivere con le donnacce con cui vivevo io», ribatteva Bukowski, che rivendicava il diritto di raccontare le sue relazioni senza infingimenti. Eppure sosteneva che, da quelle “donnacce”, aveva imparato più che da eserciti di intellettuali. Più di un valent’uomo, avvertiva, è stato rovinato da una donna, ma a “salvarlo” è una donna, la sua seconda e ultima moglie, Linda Lee. È lei a rimetterlo in carreggiata e ad allungargli la vita di una decina d’anni almeno, mettendolo a dieta e moderandone gli eccessi. Niente più sbronze e puttane. E poco importava che i lettori gridassero al tradimento. Avrebbe potuto mentire loro, continuare senza fatica a servirgli il solito menù, come fanno quasi tutti gli scrittori di successo: smettono di scrivere e si armano di fotocopiatrice. Ma vita e scrittura per Bukowski non sono separabili e la verità, la sua verità, rimane l’unico obiettivo per cui valga la pena vivere e scrivere.
Giuseppe Alessandri

Nessun commento: