sabato 31 marzo 2012

"Apocalissi 2012" (Bietti), ma questi racconti sono la fine del mondo...

Dal Secolo d'Italia del 31 marzo 2012
«Pentiti! Adesso, subito, è questione di momenti». Così parlò Dio, «un Dio con uno strano accento genovese», nel racconto di Marco Cimmino intitolato Priorità. Il ministro ha convocato nelle austere stanze del potere il sindaco del piccolo comune di Orzinovi per intimidirlo e vincerne così le resistenze: quell’autostrada che deve congiungere Milano al nord Europa s’ha da fare. La discussione si fa animata. Finchè l’intimazione arriva via etere, contestualmente, sul cellulare di entrambi. «Pentiti!». Lo scherzo di un buontempone? Non c’è tempo per svelarlo. «Fuori, nella notte, il cielo stava crollando», è il beffardo congedo dello scrittore bergamasco.
Del resto è il 21 dicembre del 2012, una data tutt’altro che casuale. Già, lo spunto è offerto dalla data che, secondo un antico e complesso Calendario Maya, segnerebbe la fine del cosiddetto “Lungo Computo”: 5mila anni di storia al cui termine l’umanità tutta si affaccerebbe oltre le colonne d’Ercole. Il condizionale è d’obbligo, non solo sull’eventuale avverarsi dell’infausta profezia ma anche sulla data. Nei giorni scorsi l’archeologa americanista Maria Longhera l’ha anticipata al 5 giugno, facendola coincidere con il passaggio di Venere sul disco solare, circostanza che sarebbe foriera di immancabili catastrofi. I fratelli Bohumil e Vladimir Böhm, rispettivamente matematico e docente di storia e cultura Maya, sostengono invece che l’apocalisse sarebbe rimandata al 2116.
Un rinvio che risulterebbe prezioso per tutti coloro che si sono specializzati in “disaster movie”, genere che negli ultimi anni ci ha presentato un ampio campionario di sciagure devastanti. Anche se la fantasia non sempre è riuscita a superare la realtà. Terremoti, tsunami, alluvioni e relative epidemie, hanno alimentato le fantasie angoscianti di ecologisti integralisti, santoni new age, ufologi e sedicenti esperti. Dal buco dell’ozono al baco del millennio, dalla mucca pazza alla minaccia della terza guerra mondiale, non c’è apocalisse annunciata che sinora abbia confermato la collera di Dio nei confronti dell’umanità. Per quanto corrotta, miscredente e accecata dal consumismo possa essere. Sarà l’esaurimento del petrolio o la sovrappopolazione – come azzardano gli scienziati – a decretare la fine del genere umano?
Nell’attesa di sapere come veramente andrà a finire e confidando di non scoprirlo mai, ventiquattro autori guidati da Gianfranco de Turris, tra cui spiccano i nomi di Franco Cardini, Giulio Giorello e Mario Farneti, visionari a loro agio tra fantasy, horror e science fiction, si sono divertiti a raccontarci le diverse interpretazioni della profezia toccando le innumerevoli corde dell’immaginario: storie fantascientifiche, fantastiche, orrorifiche, enigmatiche, simboliche, collettive e intimistiche. Il titolo dell’antologia è Apocalissi 2012. Non una sola, ma una per ogni autore: Ventiquattro variazioni su una possibile Fine del Mondo (Bietti, pp. 445, euro 21).
«I Maya si erano sbagliati, il mondo non era finito il 21 dicembre 2012, quel giorno era iniziata la fine», scrive Pierfrancesco Prosperi. Il protagonista di Ultimo, il suo racconto, trascorre gli ultimi minuti di normalità del vecchio mondo in un luogo simbolo della normalità, l’Ikea di Sesto Fiorentino. Quando appare chiaro che non si tratta di una pioggia normale, appena prima che l’acqua sfondi le vetrine, si mette in salvo grazie a una vasca in vetroresina, ritrovandosi a galleggiare sul vecchio mondo.
A premere il tasto della distruzione totale, ne Il broker dei Maya (Carlo Formenti), è l’erede di una ristretta confraternita di sacerdoti di Teotihuacan, custode di un testo redatto il 16 agosto del 1521, subito dopo la caduta della capitale nelle mani di Cortez e il massacro che ne era seguito. Sua, la missione di vendicare tale olocausto infliggendo ai discendenti dei conquistatori un analogo rovinoso destino. Ci riuscirà manipolando magnati, governi e imprese con dossier avelenati, «creando un gioco di domino in grado di far sprofondare l’economia globale in una crisi tale da far impallidire il ricordo del 1929».
Altra figura inquientante è quella tratteggiata in Finale allegro con moto (Giulio Leoni), a conferma che i veri mostri si annidano nella quotidianità: il promotore finanziario, figura centrale della civiltà postmoderna, «professionista che da almeno un ventennio si è saldamente accampato ai vertici della scala ossessiva, scalzandone i più tradizionali venditori di libri e aspirapolvere a domicilio, i collocatori di polizze assicurative e i procacciatori di fedeli per improbabili sette filosofiche o religiose». La fine si avvicina? Nessun problema.  Il promotore ha pronto il pacchetto giusto: «Un affare prima del disastro, un affare anche dopo!». La possibilità di acquistare in multiproprietà rifugi in località montane per il futuro dopo-catastrofe. Un po’ come il business dei vecchi bunker durante la Guerra Fredda. Se la casastrofe non dovesse verificarsi, però, si tratterebbe pur sempre di prestigiosi resort sfruttabili commercialmente.
Sì, la “crisi” può trasformarsi in un’opportunità inattesa. Come ci suggerisce l’etimologia greca del termine, il pericolo ci induce ad assumere decisioni. A svoltare. È quello che capita in Prima della fine (Francesco Grasso) al protagonista che, succube di un insopportabile suocero, generale tutto d’un pezzo e dalla conversazione monodirezionale, riscoprirà l’importanza del carpe diem. A scuotersi è anche lo scrittore de La fine e il suo racconto (Errico Passaro). L’approssimarsi del 21 dicembre ne acutizza la lucidità. A restituirlo alla scrittura è una consapevolezza: «Quella dei Maya è una profezia auto avverante, la cui esistenza induceva le persone a comportamenti a essa conformi. Non avrebbe mai potuto sortire effetti concreti, se milioni di persone in tutto il mondo non  avessero a essa attribuito valore e si fossero comportati di conseguenza. Se si pensa che nel 2012 arriverà la fine del mondo, questo avverrà».
A minare le sorti del mondo è la cosiddetta sindrome del millenarismo strisciante, perché il tema è una costante che ci accompagna dalla notte dei tempi, ideale per distogliere l’attenzione da altro. «L’umanità tecnologica e ipocondriaca dell’anno 2000 – scrive de Turris nell’introduzione – non è molto diversa da quella rozza e credulona dell’anno 1000. Si comporta dal punto di vista psicologico e intellettuale né più né meno come quella del decimo, irrazionalmente. Con l’aggravante che questa sindrome viene diffusa per ogni dove con una velocità e capillarità impensabili ai nostri antenati grazie proprio alla tecnologia». Gli invasati che un millennio fa si aggiravano tra borghi e campagne a predicare il pentimento in vista del 31 dicembre dell’anno 999 sono meno numerosi di allora ma hanno il vantaggio di poter sfruttare le potenzialità offerte dai nuovi media elettronici e moltiplicarsi sui social network «dove il chiacchiericcio mediatico, il passaparola, la leggenda metropolitana si distorce, s’ingrandisce, si amplifica e fa diventare verità una semplice diceria».
Almeno fino a quando non dovesse verificarsi quanto immaginato da Mariano Bizzarri in Millenius. «Uffici, ministeri e semplici cittadini si ritrovavano senza computer. Niente più chat, niente più quotidiani on-line, niente più facebook. Un senso di smarrimento si leggeva nel loro occhi: senza pc non sapevano più cosa fare, cosa pensare, cosa dire. Lunghe, interminabili code di persone con in braccio il loro portatile cominciavano a formarsi di fronte ai negozi di elettronica. Un’ombra cupa di panico scese sul mondo civilizzato». Tanto civilizzato da non poter più fare a meno della tecnologia da cui siamo tutti incresciosamente dipendenti.
Roberto Alfatti Appetiti

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