martedì 15 aprile 2008

Dove il balilla e lo scout si danno la mano (di Pierluigi Biondi)

Articolo di Pierluigi Biondi
Da Charta Minuta n. 7 Nuova serie - aprile 2008
Inchiodati alla fulminante ma ingenerosa definizione che di loro diede George Bernard Shaw – “bambini vestiti da cretini guidati da un cretino vestito da bambino” – gli scout, oltre che al sarcasmo dei più, sono sopravvissuti a due guerre mondiali, al boom dei ’60, all’impegno dei ’70, al riflusso degli ’80, alla prima e alla seconda repubblica, al passaggio del millennio e alla crisi del sistema, al crollo dei miti e alla new age. Come la Dc o il Festival di Sanremo, di cui difficilmente si trovava qualcuno disposto pubblicamente a parlarne bene ma che poi – nel segreto dell’urna e dei dati Auditel – mietevano consensi, così gli scout hanno risposto alle ironie e alle raffigurazioni caricaturali riempiendo le loro sedi di lupetti, coccinelle, esploratori, guide e rover.
Le stime parlano chiaro: nei cento anni e passa di attività, almeno mezzo miliardo di uomini e donne hanno pronunciato la promessa scout, impegnandosi a compiere il proprio dovere “verso Dio, la Patria e la Famiglia”, ad “agire sempre con disinteresse e lealtà” e ad “aiutare gli altri in ogni circostanza”, dando sempre “il meglio di sé”.
Tra loro molti i nomi celebri: dai coniugi Clinton al colonnello Muammar Gheddafi, dall’astronauta Neil Armstrong all’icona pop-rock Jim Morrison e – per restare in Italia – i politici Ignazio La Russa e Giovanna Melandri, i cantanti Gino Paoli e Jovanotti, il capo della Protezione civile Guido Bertolaso e il dirigente del Sismi Nicola Calipari, morto a Baghdad durante la liberazione della giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena. Anche Georges Prosper Remi – in arte Hergé, creatore di Tintin (foto a sinistra) – ha calzato il bizzarro cappello a larghe tese e un suo murale, dipinto sul corridoio di una scuola dismessa in cui sono riprodotti degli scout, è diventato un oggetto di culto per gli appassionati delle opere del disegnatore belga.
L’atto di nascita dello scoutismo è del 1907, quando l’ufficiale dell’esercito inglese Lord Robert Baden Powell portò una ventina di giovanotti nell’isola di Brownsea, nella Manica, per dar vita al primo campo – jamboree in gergo scout – della storia. L’idea, a B. P. (come affettuosamente viene chiamato dai suoi seguaci), venne dopo aver verificato il successo che il manuale Aids to Scouting – scritto originariamente per i suoi soldati – aveva tra i ragazzi, a tal punto da essere adottato come libro di testo nelle scuole. Da lì la pubblicazione, nei primi mesi del 1908, del manuale di formazione Scouting for boys che diventerà la Bibbia di intere generazioni con i pantaloncini corti e il fazzolettone al collo.
Alla figura del fondatore, recentemente, la Lizard Edizioni – la casa editrice fondata da Hugo Pratt – ha dedicato il volume a fumetti di Ivo Milazzo e Paolo Fizzarotti intitolato Impeesa (p. 72 a colori, € 19,50) come il soprannome con cui gli zulù africani chiamavano Baden Powell.
Attualmente gli scout presenti nel mondo sono quaranta milioni, di cui almeno duecentomila iscritti in una delle tre associazioni della penisola: Agesci, Fse e Cngei, le prime due di ispirazione cattolica, la terza laica. Un esercito che marcia zaino in spalla e sacco a pelo, ordinato in squadriglia o in pattuglia, a far esperienza di vita comunitaria all’aria aperta. Non esistono problemi insormontabili: un fuoco da accendere in condizioni precarie, un accampamento da allestire all’improvviso o un ferito da curare, per ogni cosa c’è una soluzione. Una solida formazione, tanta buona volontà e inesauribile inventiva, questo è il segreto.
Pronti a dare una mano dove serve, gli scout si distinguono per la loro concezione di una solidarietà fatta “di prossimità” (quasi una versione attualizzata del comandamento evangelico “ama il prossimo tuo come te stesso”), lontana anni luce dal professionismo del buonismo internazionale che corre in soccorso dei terremotati dell’ultimo anfratto del pianeta o che fa barricate contro l’estinzione di un rarissimo insetto della foresta amazzonica ma che si accorge dell’anziana dirimpettaia morta da una settimana solamente all’arrivo dei vigili del fuoco. Abituati al rispetto e alla fatica, tipi così difficilmente diventano bulli: ecco perché, in occasioni quali il concerto di qualche giorno fa di Fiorello e Baglioni contro la violenza degli adolescenti nei confronti dei loro coetanei, è più facile scoprirli dall’altra parte delle transenne a distribuire acqua o a prestare soccorso piuttosto che ad agitarsi a ritmo di musica. Così come si possono trovare, durante i sabati sera degli happy hour portati fino al mattino e delle corse in automobile, a spiegare ai ventenni i rischi dell’alcool o dentro qualche carcere a fare volontariato tra i detenuti o a dare assistenza tra i pellegrini del Giubileo romano. Oltre che prendersi cura degli altri, però, sono anche capaci di pensare a se stessi, sviluppando una spiccata propensione all’adattamento nelle situazioni più difficili e alla pianificazione del lavoro di squadra. Non è un caso, quindi, che l’Università Bocconi mandi i suoi allievi a studiare il modello scout a Ginevra o che l’agenzia di lavoro interinale Adecco suggerisca ai candidati di inserire nel curriculum le esperienze da esploratore o da rover. Perché una volta scout lo si è per sempre, come recita il loro motto: semel scout, semper scout.
Ha detto bene Edoardo Missoni (foto a sinistra), segretario generale uscente dell’Organizzazione Mondiale del Movimento Scout: «Lo scoutismo è l’unica scuola di management al mondo ad avere 100 anni di tradizione, e l’unica che si può frequentare a partire dagli 8 anni di età».
E allora perché di loro rimane lo stereotipo del “fregnone”, quello – per intenderci – descritto con l’attempato Nuvolone da Carlo Verdone nel suo ultimo film Grande, grosso e… Verdone? Chissà se per la loro somiglianza a dei novelli Balilla (analogia fin troppo spiccata se il regime decise che di milizia giovanile ne bastava una e decretò lo scioglimento del movimento scout e lo condannò alla clandestinità del periodo detto della “Giungla silente”). Oppure per la rappresentazione che Clark Barks ne diede, a partire dal 1951, con le Giovani Marmotte disneyniane interpretate da Qui, Quo e Qua – nipotini dello sfaccendato e sfigato zio Paperino – che si mostrano tronfi sull’attenti petto-in-fuori-pancia-in-dentro al cospetto del loro capo, quel trombone del Gran Mogol, smaniosi di ricevere la milionesima medaglia per l’ennesima prova di capacità e di coraggio. O forse ancora, la risposta potrebbe fornirla lo storico John Springhall che, in un articolo pubblicato nel 1972 sulla rivista International Review of Social History, così definiva – con pomposissima retorica progressista – il movimento scout: «Una versione personalizzata (del fondatore Baden Powell, ndr) di socio-imperialismo, onnipresente darwinismo sociale e culto edoardiano dell’efficienza nazionale».
Una macchietta, in pratica. E sì, perché le uniformi, l’organizzazione gerarchica, la disciplina, la “buona azione quotidiana” – da che mondo è mondo – stimolano lo sghignazzo negli invidiosi che camuffano il proprio conformismo, ideale o sociale che sia, con il ribellismo dei costumi. Gli stessi che non ci spiegano perché debba apparire più ridicolo un ragazzino beneducato con i pantaloni alla zuava che dorme in tenda piuttosto che un adulto (?) con le treccine rasta che si sballa rinchiuso dentro un centro sociale.
Pierluigi Biondi (L’Aquila, 1974), giornalista, scrive per il quotidiano Secolo d’Italia e la rivista Senzatitolo, trimestrale di teatro e cultura. Ha collaborato, in qualità di editor, al libro Tre punti e una linea. La storia attraverso la radio (ed. Teatroimmagine, 2007). Dal 2004 è sindaco di Villa Sant’Angelo (Aq).

Nessun commento: